Come una stella marina potrebbe aiutarci a comprendere il cambiamento climatico

(foto: Pierre Thibault, università di Trieste)

Il mare è da sempre ispirazione per moltissime storie. Ma una in particolare, quella sul futuro del del pianeta, potrebbe essere in qualche modo già scritta nei suoi abitanti, anche in quelli più piccoli e inosservati. Decifrare questa traccia nascosta è oggi una delle grande sfide per gli scienziati, con esploratori, biologi, esperti di ambiente e di tecnologia al lavoro fianco a fianco per studiare l’impatto che il cambiamento climatico opera sugli ecosistemi. L’obiettivo è costruire modelli predittivi sempre più accurati di quello che avverrà nei prossimi anni. 

Di questo abbiamo parlato per Wired con Pierre Thibault, docente di fisica applicata all’università di Trieste ed esperto di raggi X, con i quali oggi indaga in particolare su un organismo dei mari del Nord, una piccola stella marina, cercando segni riconducibili al cambiamento del clima, che come sappiamo condiziona temperature, acidità e altri connotati delle acque del pianeta. Un progetto che si avvale di un team internazionale di scienziati, condotto in collaborazione con Elettra sincrotrone e che verrà raccontato nel corso della decima edizione di Trieste Next, festival della ricerca scientifica e vera e propria “vetrina dell’innovazione” in programma da venerdì 24 a domenica 26 settembre nel capoluogo giuliano. 

Perché una stella marina?

L’animale al centro del “mirino”, grande appena qualche centimetro, si chiama Ctenodiscus crispatus, una specie molto diffusa in tutto l’Artico norvegese, che comprende oltre il 3% della biomassa di questa regione e che popola i fondali fangosi, motivo per cui è soprannominata mud star – dove mud in inglese significa appunto fango. “La scelta è ricaduta proprio su questo organismo per la sua gran diffusione, che la rende un buon candidato come rappresentante delle condizioni ambientali – spiega Thibault – ma anche per le specifiche funzioni che svolge: ha infatti un ruolo importante nella pulizia del fondale marino, dove contribuisce a rimescolare i materiali che continuamente vi si depositano, nutrendosi di detriti organici”

Come tutti gli organismi, anche Ctenodiscus crispatus deve riuscire ad adattarsi ai cambiamenti innescati dal cambiamento climatico sul suo habitat e l’idea è di andare a indagare quali meccanismi questa creatura stia mettendo in atto a livello di organi digestivi e riproduttivi per far fronte a queste alterazioni e assicurarsi la sopravvivenza. Un’idea nata, ci racconta lo scienziato, dall’incontro nel febbraio dello scorso anno tra la biologa marina Christina Woods del Centro nazionale di oceanografia dell’università di Southampton e Irene Zanette, ricercatrice in materia di imaging a raggi X al sincrotrone Elettra di Trieste, entrambe parte del team che oggi porta avanti il lavoro. 

Il ruolo del sincrotrone

Sul perché dei raggi X e perché proprio quelli di una macchina grande e complessa come un sincrotrone, facciamo un passo indietro. Siamo abituati a sentir menzionare questa tecnologia nei contesti medici, dove viene impiegata a scopo diagnostico soprattutto per problematiche osteoarticolari e valutazioni del torace (ha trovato impiego anche per Covid-19). Il senso è quello di guardare “oltre la superficie” e costruire un’immagine dell’interno dell’organismo sulla base del diverso assorbimento della radiazione di tessuti e organi. 

I raggi X vengono prodotti tradizionalmente generando una grande differenza di potenziale nello spazio tra due entità metalliche, il catodo e l’anodo, una condizione che una volta applicato il vuoto fa sì che gli elettroni lì compresi subiscano un’accelerazione che determina l’emissione di raggi X. Si tratta però di raggi X che gli scienziati definiscono “sporchi”, dove cioè sono presenti diverse lunghezze d’onda e che non sono adatti a misurazioni che richiedono altissima precisione. La qualità finale dell’immagine, insomma, dipende strettamente dal tipo di strumento utilizzato. 

Il sincrotrone di Trieste è tutt’altra cosa rispetto ai macchinari da laboratorio che siamo abituati a vedere negli ambulatori ospedalieri. Si tratta di un’infrastruttura dedicata a forma di anello dal diametro di circa 300 metri, lungo il quale hanno sede decine di postazioni-laboratorio dedite alla raccolta dei dati. “Nei sincrotroni gli elettroni viaggiano a velocità enormi e con la possibilità di lavorare con lunghezze d’onda specifiche, direzionando il fascio in modo molto preciso – spiega Thibault – con una qualità paragonabile a quella di un laser. Sarebbe impensabile ottenere informazioni dettagliate come quelle di cui necessita questo tipo di indagine con un impianto diverso da questo. 

“Woods ci ha fornito i campioni di stella marina adatti” va avanti il professore “e in questo modo noi qui a Trieste abbiamo potuto, a dicembre 2020, entrare in azione con la prima raccolta di dati presso il nostro sincrotrone”. I campioni, preparati a partire da organismi recuperati dalla nave di ricerca norvegese G.O. Sars, sarebbero stati, altrimenti, semplicemente dissezionati per essere osservati rispetto alla loro anatomia interna, senza possibilità di essere riutilizzati per successive analisi né di essere indagati per più di una singola caratteristica per ciascun individuo. I raggi X hanno invece il potenziale, oltre che di fornire informazioni strutturali con un grado di dettaglio senza eguali, di penetrare oggetti di natura diversa senza degradarli e con la possibilità di riaffrontare le indagini a distanza di tempo, mano a mano che le tecniche di studio vengono affinate. 

Come sfrutta i raggi X

È proprio questa la fase in cui si trova attualmente il progetto: affinare le tecniche, trovare cioè il modo migliore sfruttare la potenza dei raggi X per scovare le fragilità degli organismi in questione e le tracce lasciate dall’evoluzione del clima. “A distanza di mesi stiamo ancora analizzando i dati raccolti durante la prima sessione di misure, e già questo dà il polso di quanto il lavoro sia complesso”, spiega l’esperto: “La prima pubblicazione scientifica su questo progetto è ancora in preparazione e non riguarderà ancora le questioni strettamente biologiche: per quelle sarà necessario sottoporre i campioni ai raggi X ulteriori volte. Riguarderà semmai le questioni metodologiche, discuteremo cioè sulle tecniche di imaging e tomografia a raggi X per lo studio delle proprietà di questi organismi”. 

(foto: Pierre Thibault, università di Trieste)

Avere un’idea originale, dei buoni campioni e uno strumento di tutto rispetto non è infatti garanzia di risultati immediati e di poter riconoscere facilmente la “firma” dei cambiamenti climatici sugli esseri viventi: “Per questo ci vorrà tempo: anche solo guadagnarsi la possibilità di utilizzare nuovamente la luce di sincrotrone presuppone un iter per la valutazione del progetto che non è affatto scontato. Inoltre – continua Thibault – analizzare gli organi interni di queste stelle marine è un processo delicatissimo, tanto che è probabile che non verrà lasciato in mano alla macchina, ma che sarà necessario che uno scienziato in carne e ossa segua gli esperimenti in tempo reale e rilevando, quasi ‘disegnandoli a mano’, i tessuti interessanti per il progetto”.

Questo perché, a differenza dell’esoscheletro dell’animale, le parti molli al suo interno sono ben più difficili da visualizzare e misurare e perché non esistono (ancora) algoritmi in grado di compiere queste operazioni in automatico. “Una volta arrivati a questo punto, operata cioè quella che chiamiamo segmentazione del volume, potremo finalmente confrontare la taglia relativa di organi digestivi e riproduttivi di esemplari raccolti in acque più o meno fredde”, anticipa il professore. 

Gli altri candidati

Nel corso del progetto, finanziato con un grant dello European Research Council, si intende passare al vaglio anche altri organismi-chiave della salute dei nostri mari. Il riccio di mare, specie molto presente nel Mediterraneo, per esempio, ma anche alcune varietà di spugne, sensibili alle alterazioni di temperatura e acidità delle acque e che possono aprire lo sguardo anche a un altro problema delle acque del pianeta: l’inquinamento da microplastiche, invisibili ma potenzialmente nocive in quanto possono persino bloccare i canali interni di queste creature. Inoltre, i ricercatori pianificano confronti con specie del passato a partire da campioni datati o addirittura dai fossili, avvalendosi della collaborazione con musei di storia naturale e provando a “riavvolgere il nastro” a secoli e secoli fa.  

Al di là della biologia marina e della paleontologia, lo sviluppo delle tecniche per la diffrazione a raggi X di cui il team di Thibault si sta occupando incontra anche le scienze dei materiali, con lo studio delle proprietà di quelli compositi in fibra di carbonio, “sempre più diffusi in ambito industriale, ma estremamente complessi da studiare”, va avanti lo scienziato. Che aggiunge: “Un altro dei miei sogni ha invece a che fare con la storia: poter interpretare attraverso i raggi X i papiri di Ercolano, carbonizzati dalla celebre eruzione del Vesuvio, conservati molto bene ma che per ovvie ragioni non possiamo srotolare. Mettere a punto un metodo sufficientemente potente e preciso potrebbe significare poter leggere testualmente al computer parole di duemila anni fa”

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