La mappa degli attivisti e dei movimenti per il clima
L’attivismo sui temi ambientali non è qualcosa di nuovo. Esiste da decenni, se non addirittura da secoli a seconda di cosa consideriamo possa rientrare nella categoria, ma è solo di recente che sta prendendo piede in modo più incisivo e generale. Il primo nome che ci viene in mente se pensiamo all’attivismo per il clima è sicuramente quello di Greta Thunberg. Se si vuole abbozzare una mappatura dell’attivismo climatico contemporaneo non c’è altra scelta che partire da lei, dalla giovane svedese che salì alla ribalta all’età di 15 anni grazie al suo Skolstrejk för klimatet, (sciopero scolastico per il clima) che consisteva nell’andare davanti al parlamento svedese quotidianamente per chiedere al suo paese azioni concrete e rapide per contrastare il cambiamento climatico.
Oggi Thunberg ha 18 anni, è ancora molto conosciuta e seguita ma il suo ruolo mediatico è stato ridimensionato dopo la Cop25 di Madrid nel 2019. Quella particolare riunione delle Nazioni Unite sui temi ambientali ebbe moltissimo seguito mediatico e le aspettative dei cittadini e degli ambientalisti erano piuttosto alte, ma vennero deluse.
In quel 2019 Thunberg fu la “persona dell’anno” della rivista Time, vinse il Nordic Council Environment Prize, il Fritt Ord Award, il Rachel Carson Prize ma anche l’Ambassador of Conscience Award, il Right Livelihood Award e l’International Children’s Peace Prize. Tutti nello stesso anno. Poi però, a causa degli scarsi risultati della Cop25 ma anche di un fisiologico calo tipico delle attività politiche, l’attenzione su Thunberg è calata. Un ottimo esempio per spiegare questo meccanismo è la storia politica di Al Gore, celebre ambientalista che è stato, tra le altre cose, il 45esimo vicepresidente degli Stati Uniti. Un ruolo che equivale realisticamente a essere una delle persone più influenti al mondo, ma evidentemente nemmeno una posizione simile può garantire una fama duratura.
Un’ambientalista alla Santa Sede
Nel mondo dell’attivismo uno dei nomi al momento più interessanti è quello di Molly Burhans. La sua scelta di come impattare sulla crisi climatica ha meno a che fare con le proteste di piazza e più con ciò che si definirebbe “pressione politica” o lobbying. Burhans è una cattolica fervente e una cartografa specializzata in Gis (sigla che sta per Geographic information system, un sistema col quale si gestiscono grandi quantità di dati spaziali), così, come racconta il New Yorker in un lungo articolo, ha deciso di applicare le sue conoscenze alle immense proprietà della Santa Sede.
Ha preso un biglietto per Roma ed è riuscita a farsi ricevere dalla Segreteria di Stato, dove ha presentato un’idea a cui lavorava da mesi, cioè trovare dei modi in cui la Chiesa cattolica potrebbe essere “mobilitata come forza ambientale globale”.
Il punto, secondo Burhans, è che nel mondo “ci sono 1,2 miliardi di cattolici” e se la Chiesa fosse un paese “sarebbe il terzo più popoloso, dopo Cina e India“. Non solo, la Chiesa è anche l’ente non statale che possiede più terre al mondo. Stando sempre ai calcoli di Burhans, se sommassimo le proprietà della Santa Sede a quelle di parrocchie e vari ordini religiosi che rispondono al Vaticano, avremmo quasi 80 milioni di ettari di terreni. Spesso in aree dove il riscaldamento ha causato danni maggiori, come l’Africa centrale e il bacino dell’Amazzonia.
Per questo la giovane attivista statunitense si è convinta che, senza un coordinamento ambientalista di questi beni, la lotta al cambiamento climatico e ai suoi effetti risulterebbe troppo in salita. Burhans, quando è stata ricevuta in Vaticano, ha chiesto di potersi occupare di una mappatura completa, e così ha fondato GoodLands che come obiettivo ha di “combinare il coinvolgimento della comunità, la progettazione e le tecnologie di mappatura per rivelare opportunità ad alto impatto per strategie di uso del territorio che abbiano un impatto rigenerativo sui sistemi ambientali, sociali ed economici”.
Agire sul territorio
Come si nota scorrendo lo speciale di National Geographic sui giovani attivisti per l’ambiente il numero di quelli citabili è enorme. Alcuni potremmo averli sentiti nominare, altri ancora li sentiamo oggi per la prima volta. In ogni caso il modo in cui ha preso piede il nuovo attivismo ambientale è basato sull’area di appartenenza. Giovani e giovanissimi agiscono cioè direttamente sui loro governi o sulle comunità in cui vivono. L’idea di fondo è quella di avere un impatto diretto su dei problemi specifici, come la siccità nel Sahel o la deforestazione che colpisce molte aree dell’Amazzonia.
Agendo collettivamente su problemi locali, si ottiene un risultato globale. Prendiamo per esempio Mayumi Sato, cittadina giapponese ma che ha concentrato le sue energie sul problema della deforestazione di un’altra parte di Asia, quella tra Laos e Thailandia. Oppure, venendo all’Italia, Federica Gasbarro, rappresentante per il nostro paese al Youth Climate Summit delle Nazioni Unite.
L’antesignana dei giovani attivisti
Va detto che di giovanissimi impegnati per l’ambiente e la crisi climatica, ancora prima di Greta Thunberg, ce n’erano già alcuni di molto significativi. Come Severn Cullis-Suzuki. Nel 1992 Severn aveva appena 12 anni e con altre tre giovani attiviste viaggiò per migliaia di chilometri per andare al summit sul clima delle Nazioni Unite (non si chiamava ancora Cop, la prima Cop si sarebbe tenuta tre anni dopo a Berlino).
Col suo discorso la giovane attivista canadese passò alla storia come “la bambina che ha messo a tacere il mondo per sei minuti“. Disse, tra le altre cose: “Perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o qualche punto in borsa“. E ancora, riferendosi alle altre sue compagne di viaggio: “Abbiamo raccolto i nostri soldi e viaggiato per 5 mila chilometri per venire qui e dire a voi che dovete cambiare e scegliere di agire”. Nomi come quello di Cullis-Suzuki, per quanto oggi non finiscano in prima pagina sui giornali, hanno ancora un certo impatto sui movimenti ambientalisti.
A livello associazionistico, i movimenti più forti oggi sono Fridays For Future e Extinction Rebellion. Il primo è la continuazione dello sciopero che Greta Thunberg faceva anni fa, ma su scala globale: una diretta eredità che l’attivista è riuscita a espandere in decine e decine di città sparse in tutto il mondo. Il nome (letteralmente “venerdì per il futuro”) viene dal fatto che la giovanissima attivista svedese protestava ogni venerdì davanti al parlamento del suo paese. Si tratta ormai di una rete molto ampia e distribuita sul pianeta, e di conseguenza molto eterogenea, ma che ha come capisaldi l’attivismo dei più giovani e la pressione sugli stati. Extinction Rebellion, invece, è molto diverso. Innanzitutto è nato nel Regno Unito ed è più legato ai movimenti sociali come Occupy Wall Street e quelli che, molti anni fa, chiamavamo “No Global”. Entrambi i movimenti sono principalmente occidentali e hanno presa quasi solamente in Europa e nell’America del Nord, ma nel caso di ER l’idea è quella di un attivismo basato più sulla disobbedienza che sulla pressione sulle istituzioni.
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