Quella del ministro Brunetta contro lo smart working è una battaglia fuori tempo massimo

Il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta
Il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta (Foto: Frontiers Conferences/Flickr)

Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha ufficialmente dato il via alla sua guerra allo smart working degli statali. Che il lavoro da casa, o comunque non in ufficio, dei dipendenti pubblici non gli piacesse lo avevamo capito già da un po’. Nella primavera del 2020, mentre l’Italia era stretta nella morsa del coronavirus e dei conseguenti lockdown, Brunetta, ancora uomo di opposizione, diceva che la priorità era riaprire tutti gli uffici al più presto. Ora che ha il potere di farlo grazie alla carica nel governo Draghi e che i tempi sono migliori per il graduale ritorno alla normalità, il ministro non vuole più tergiversare.

La sua proposta prevede per i dipendenti della pubblica amministrazione il graduale rientro in presenza, con l’obiettivo di arrivare a un irrisorio 15% di attività in smart working. Su 3,2 milioni di dipendenti italiani del settore, il lavoro agile andrebbe quindi a riguardare 480mila persone, mentre gli altri 2,7 milioni tornerebbero quotidianamente a riempire strade e mezzi di trasporto. Una rivoluzione rispetto ai dati dello scorso anno, quando lo smart working nella pubblica amministrazione è arrivato a toccare punte del 56%, un dato che è comunque già in calo da diversi mesi. Basti pensare che a maggio il lavoro da remoto nel settore riguardava poco più di un terzo degli impiegati.

Brunetta vuole di più e questo perché nella sua visione del mondo del lavoro lo smart working porta più danni che benefici in termini di ricchezza, come ha sottolineato proprio in queste ore. Un’idea manageriale molto conservativa, un concetto intriso di quel senso comune per cui lavorare da casa significa non lavorare, ma soprattutto una prospettiva sbagliata da tutti i punti di vista. Non sappiamo bene a quale “ricchezza” faccia riferimento il ministro, ma un anno e mezzo di smart working nel mondo ci ha insegnato che in termini di produttività, di benessere psicofisico dei dipendenti, di impronta ecologica e di pressione sulle città, il lavoro agile è quasi sempre stato in grado di portare maggiore ricchezza. Quando non ci è riuscito è stato proprio per visioni manageriali à la Brunetta che non lo hanno accompagnato, soffocandone i potenziali benefici.

I numeri

Partiamo dalla produttività. Il World economic forum ha calcolato che lo smart working negli Stati Uniti ha portato a un suo incremento del 4,6%. L’ufficio Studi della società di consulenza Pricewaterhouse Cooper ha invece stimato che se tutti i lavoratori le cui mansioni lo permettono ricorressero al lavoro agile ci potrebbe essere un balzo fino al +1,2% del pil italiano. Non è un caso che nelle scorse settimane perfino Banca d’Italia abbia istituzionalizzato lo smart working al 30% per i suoi 6.500 dipendenti, per via dei maggiori benefici per l’ambiente e minori consumi di energia.

Ed è proprio questo il secondo punto da considerare quando si ragiona sull’organizzazione del lavoro: l’impronta ecologica. La presenza in ufficio comporta costi ambientali molto alti. Un altro problema riguarda poi il viaggio casa-ufficio, con il congestionamento di auto e la classica coda quotidiana sulle tangenziali e le principali arterie urbane ed extraurbane. Tutto questo si traduce in un aumento delle emissioni nocive e se la mobilità urbana sostenibile sta provando a imporsi per cambiare lo stato delle cose, l’obiettivo è ancora lontano. L’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano ha sottolineato che durante le fasi più acute del lockdown i lavoratori in smart working hanno fatto “risparmiare” 1,861 chili di emissioni di CO2 ciascuno, mentre per il futuro uno studio dell’associazione no profit Carbon Trust stima un risparmio di 8,7 megatonnellate di CO2 equivalente ogni anno se i lavori effettuabili da remoto venissero effettivamente svolti in questa modalità.

Strade intasate, smog alle stelle e pendolarismo non sollevano solo dilemmi ambientali e di pressione sulla città, ma anche (e a braccetto) di benessere del cittadino lavoratore. Lo smart working permettere di abbattere una parte dell’occupazione che non viene computata come tale, quella appunto del percorso verso l’ufficio, le città si trasformerebbero in luoghi più vivibili e veloci senza le cosiddette ore di punta che intralciano la mobilità, mentre da casa c’è la possibilità di meglio organizzare il proprio lavoro in base a necessità e contingenze, senza lo stress del controllo fisico del superiore. 

È proprio questo il punto su cui sembra reggersi e tutta l’impalcatura manageriale brunettiana, l’idea che il lavoratore sia un bambino da controllare, educare e correggere costantemente, incapace di mantenere da solo sulle proprie spalle la responsabilità di fare, appunto, il suo lavoro. Una visione aziendale conservatrice, che oggi viene definita dal ministro “normalità” in un momento storico in cui a causa della pandemia questa parola ha smesso di avere senso e nuove rivoluzioni tracciano la strada verso il futuro. In questo anno e mezzo abbiamo scoperto in modo diffuso il lavoro agile e i risultati sono molto incoraggianti, eppure persiste una visione arcaica che vuole vedere solo ciò che non funziona o fa finta di non vedere quello che funziona. In realtà, il problema dello smart working non è lo smart working, ma chi come Brunetta non gli dà nemmeno l’occasione di dimostrare il suo successo, ponendogli davanti ostacoli insormontabili.

The post Quella del ministro Brunetta contro lo smart working è una battaglia fuori tempo massimo appeared first on Wired.