Dopo le Olimpiadi di Tokyo, l’Italia riuscirà a rilanciare lo sport nelle scuole?

(foto: Jean Catuffe/Getty Images)

La spedizione italiana torna da Tokyo in trionfo. Proietta ancora più in alto la carriera di Giovanni Malagò, presidente del Coni, e comincia a darci l’idea di come funzionerebbero le cose in un paese dove dalla teoria della “generazione di fenomeni si passasse alla pratica di un “sistema sportivo maturo”. D’altronde, non è forse molto più divertente (e utile al paese sotto molti punti di vista) incassare i dividendi di un lavoro di programmazione lungo anni, debitamente finanziato e valutato, che affidarsi ogni volta alla retorica del miracolo e del fenomeno? Lo abbiamo visto quest’anno in Giappone, vincendo cinque ori in un’atletica che solo pochi anni fa ci vedeva come comprimari destinati appunto all’attesa di qualche raro fenomeno. E pure con la delusione di qualche disciplina a cui da sempre ci aggrappavamo per rimpolpare il paniere, rientriamo con il record storico di medaglie.

Eppure l’entusiasmo per il bottino dei 40 podi fra ori, argenti e bronzi non dovrebbe portarci fuori strada. Per la serie: grazie di tutto e ci vediamo a Parigi (quella Parigi che avrebbe potuto essere Roma). Dovremmo cioè sfruttarlo, come solo in parte ha detto Malagò, per mettere mano ai problemi strutturali di un paese che non crede nell’attività sportiva scolastica e quindi non ci ha mai investito una lira. Non ci crede non solo in termini infrastrutturali ma anche didattici: non crede nel ruolo dello sport di base, dunque nei suoi insegnanti e nella loro formazione, nel ruolo che il rapporto fra i gruppi sportivi locali – civili – e gli istituti scolastici.

L’exploit olimpico si appoggia infatti in gran parte sui gruppi sportivi militari, storica peculiarità italiana, e a cui manca appunto una gran fetta di un sistema virtuoso: quello scolastico. A Tokyo hanno per esempio partecipato 129 “atleti militari” appartenenti ai quattro corpi: Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri. A questi vanno aggiunte le Fiamme Oro della Polizia o le Fiamme Gialle della Finanza, 48 elementi che hanno vinto 11 medaglie. Vanessa Ferrari? È caporalmaggiore scelto dell’Esercito. Marcell Jacobs è un poliziotto così come Gianmarco Tamberi. Antonella Palmisano e Filippo Tortu? Finanzieri. E così via. Si tratta di una eccellente parte del nostro sistema sportivo che tuttavia non basta a dare stabilità al movimento e portare a casa a Parigi ancor 40 medaglie, e magari di più e in più discipline. Ma soprattutto per fare in modo che quelle medaglie funzionino da linfa vitale per lo sport di base, anche fuori dal recinto dorato dei gruppi sportivi militari, spesso i soli canali attraverso i quali atleti di livello o comunque promettenti hanno la possibilità di percepire uno stipendio e potersi allenare con i migliori team in strutture e centri all’altezza.

Cosa potrebbe diventare il movimento sportivo italiano se a questa formidabile peculiarità storica si aggiungesse un investimento reale sullo sport a scuola? Difficile immaginarlo ma certo saremmo in grado di insidiare movimenti come quello britannico e staccare di netto quelli francese o tedesco. L’Osservatorio povertà educativa #Conibambini, a cura di Openpolis e Con i Bambini, spiega per esempio che il 13,8% degli italiani non fa sport per motivi economici e dunque l’attività fisica in orario scolastico diventa per molte famiglie l’unica occasione per far praticare sport ai figli. Peccato che in Italia le scuole non dispongano in genere di strutture sportive come palestre, piste, campi o piscine. Secondo i dati del Miur, gli istituti dotati di almeno un impianto sportivo sono meno della metà, il 40,8%. Il dato sale un po’ solo nelle scuole del primo ciclo. Ma nel complesso si supera il 50% solo in Friuli-Venezia Giulia e in Piemonte. Nella stessa Milano meno di una scuola su cinque dispone di una palestra. Tutto questo senza contare che la presenza degli impianti di questo tipo non è importante solo per le attività scolastiche ma, di nuovo, dà vita al territorio, riduce la dispersione scolastica, stringe le maglie della comunità: le palestre sono infatti spesso aperte ad attività pomeridiane a prezzi accessibili per tutti. Così si crea un movimento.

Non è un caso che il Piano nazionale di ripresa e resilienza di cui stiamo incassando il primo anticipo dall’Unione Europea riservi 300 milioni di euro per il potenziamento delle infrastrutture per lo sport a scuola. Un investimento che dovrebbe tradursi in 400 nuove palestre da costruire entro i prossimi cinque anni. È una buona cosa, ovviamente – anche se una goccia nel mare, meno del 4% del fabbisogno – ma la cultura sportiva non passa solo dall’edificio: passa da una nuova classe di docenti, da una modifica all’impostazione didattica, dall’attribuzione di un peso significativo alla valutazione nell’educazione fisica e motoria, con le dovute sensibilità fra gli studenti. E a rapporti stretti pubblico-privato, cioè fra gruppi sportivi territoriali e istituti. Il Pnrr indica per altro che l’attività motoria debba essere svolta nelle scuole primarie “anche attraverso l’affiancamento di tutor sportivi scolastici”. Chi sono questi tutor? Perché, come chiedono le associazioni di categoria, non si investe in insegnanti specializzati come prevedono per altro alcuni progetti di legge da tempo arenati alle Camere?

Non siamo Stati Uniti e Gran Bretagna, non avremo mai il meraviglioso universo sportivo che caratterizza i college e le high school e sforna generazioni di atleti di altissimo livello, ma molto si può fare già nei prossimi anni per provare a consolidare i risultati olimpici con cui ora ci riempiamo la bocca. E soprattutto per non nascondere sotto il tappeto di queste quaranta, splendide medaglie i problemi strutturali che fanno la differenza fra i fenomeni e la maturità.

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