Perché in India c’è un braccio di ferro tra governo e piattaforme sull’ecommerce

 

Nel più grande magazzino di Amazon in India (Getty: Dhiraj Singh/Bloomberg)
Nel più grande magazzino di Amazon in India (Getty: Dhiraj Singh/Bloomberg)

Rivoluzioni digitali, battaglie tra colossi e sbarchi eccellenti: la battaglia per l’ecommerce in India continua, da ormai tre anni a questa parte, a riservare continui colpi di scena. L’ultimo è opera dello stesso governo, guidato dal primo ministro Narendra Modi: la proposta di una serie di emendamenti alle norme sulla protezione dei consumatori, risalenti al 2020, che riguardano direttamente proprio il mondo dell’ecommerce.

Nuove norme

Tra le modifiche proposte dal governo c’è la richiesta di identificare chiaramente la provenienza dei prodotti e di nominare un responsabile dei reclami (come richiesto da poco anche al mondo dei media e social media), ma anche il divieto di effettuare vendite “flash” (Black Friday, addio), e di vendere prodotti a proprio marchio: l’India non consente alle aziende di ecommerce di detenere scorte o vendere articoli direttamente ai consumatori, e per aggirare il problema, fino ad oggi le aziende operavano attraverso un labirinto di joint venture, con aziende locali che fungevano da inventario.

Le principali piattaforme (in particolare Amazon e Flipkart, di proprietà di Walmart) hanno storto il naso, ma Claudio Maffioletti, segretario generale della Camera di commercio italiana in India, ricorda che il mercato dell’ecommerce indiano continua a fare gola. I dati parlando di un giro d’affari di 80 miliardi di dollari per quest’anno, mentre le previsioni prospettano un valore pari ai 200 miliardi entro il 2027. “I ragioni dell’interesse sono semplici. Il cosiddetto “retail brick and mortar”, legato a punti vendita fisici, necessita di investimenti non da poco per rispondere alla domanda indiana, in primis in termini di costi immobiliari, che sia nelle grandi metropoli, sia nelle città minori (cosiddette Tier II e Tier III) sono molto alti. Ecco quindi che trasferire tutto su una piattaforma digitale, permette ad una azienda di abbattere i costi”, spiega.

Acquisto locale e digitale

C’è poi una ragione concomitante al recente successo dell’ecommerce indiano, nonché la corsa dei grandi player globali a prendervi parte. “Il secondo fattore è l’estensione, la penetrazione della rete wifi in India, che particolarmente estesa, il che permette di raggiungere un mercato molto ampio con investimenti inferiori, anche in termini di inventario e stoccaggio”, spiega. C’è poi, ricorda Maffioletti, una propensione e un’abitudine all’uso del digitale ormai importante. La pandemia, secondo i dati, ha incrementato ulteriormente una tendenza già in atto.

Complice l’avvento di operatori come Jio, una manciata di anni fa, e l’assestarsi degli e-wallet, ora anche gli acquisti quotidiani avvengono via smarphone. “Anche prima della pandemia, come tutti facevo ordini via WhatsApp anche al kirana sotto casa, il classico negozietto di quartiere che ha un po’ di tutto”, dice il segretario. Il Paese pre-pandemia contava oltre 12 milioni di kirana e a comprenderne il potenziale erano stati prima di tutto Reliance Industries e Amazon, che hanno cercato di sfruttare l’ecosistema per far crescere la loro attività nel campo dei generi alimentari.

Ma è nell’ultimo anno che oltre un milione di proprietari di kirana, spesso a conduzione familiare, hanno deciso di abbracciare app e piattaforme locali che hanno permesso loro di facilitare pagamenti, consegne o la gestione dell’inventario. “I kirana rappresentano la grandissima complessità del mercato indiano, ma soprattutto la sua granularità. Hanno il grandissimo pregio di servire aree di riferimento capillari, e proprio per questo la difficoltà per loro era la gestione della logistica, che resta molto complessa” precisa Maffioletti.

Made in Italy

Per quanto riguarda l’Italia, spiega Maffioletti, c’è una nota dolente e riguarda le norme già citate: “Per come è strutturato, il sistema richiede che un’azienda italiana presente su una piattaforma di marketplace non possa vendere direttamente in India, per questo è fondamentale avere un importatore o un distributore che sia un punto di riferimento”. L’annuncio di un nuovo giro di vite sulle norme sull’ecommerce in India, precisa, risponde a esigenze precise: “Parliamo di un settore che, a differenza del retail tradizionale, è sostanzialmente non regolato e il tentativo delle autorità è quello di proteggere i retail locali. Non credo tanto i piccoli kirana, quanto le pmi indiane e la produzione locale: sembrerebbe che uno dei punti in via di discussione sia proprio il fatto che per ogni prodotto importato, presentato su una piattaforma ecommerce, ne debba corrispondere uno un made in India. Non sarà certo semplice”.

D’altra parte, secondo l’esperto, un vantaggio per i produttori italiani potrebbe senza dubbio essere rappresentato dall’obbligo di certificazione, che potrebbe mettere in luce in made in Italy, ma è altrettanto vero che, per quanto riguarda il nostro Paese, i numeri sono arretrati e i volumi bassi. “In questa fase è più importante piuttosto che le istituzioni spingano per una maggior consapevolezza della qualità della produzione del made in Italy attraverso i vari canali di ecommerce, ad esempio nell’agroalimentare, nell’arredo, o nella moda”, dice.

In questo senso, l’Agenzia per il commercio estero (Ice) e e il ministero degli Esteri hanno lanciato l’iniziativa The Italian Mall – made in Italy, una vetrina attraverso la quale i prodotti italiani sono sbarcati per la prima volta sulla grande piattaforma indiana di ecommerce, Flipkart. Nel frattempo, la Camera di commercio sta lavorando per promuovere il settore agroalimentare, in particolare, con accordi e importanti iniziative con grandi operatori come Big Basket, che però saranno rigorosamente ibridi, quindi in parte online in parte legati ai negozi fisici: “Da un lato non si potrà più fare a meno dell’online, sarà sempre più importante lavorare sull’esperienza di acquisto. In India, io credo, per quanto riguarda l’ecommerce assisteremo a una accelerazione di una modalità di acquisto esperienziale. E chi opera nel settore lo ha già ben presente”.

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