Dove può andare davvero il partito di Conte?
Sul partito di Conte girano numeri piuttosto fantasiosi. I sondaggisti, che pure sull’eventualità avevano già le antenne ben dritte, stanno ancora cercando di capirne di più e sul conto di una possibile lista dell’ex presidente del Consiglio negli ultimi giorni ne abbiamo sentite di ogni colore: “Può arrivare al 18-20%” ha spiegato Antonio Noto. “Non credo che una lista Conte potrà avere un seguito e che duri a lungo” ha aggiunto Renato Mannheimer. “Un partito personale di un leader apprezzato può raccogliere sicuramente percentuali di rilievo, togliendo voti soprattutto a Pd e 5 Stelle, non però oltre il 10%” ha spiegato Giovanni Diamanti. L’ultima previsione in ordine di tempo è di Filippo Masia, secondo il quale la lista ConTe (chiamiamola così, Giuseppi ci sembrerebbe troppo sbarazzina) potrebbe arrivare al 10-15%, pescando a piene mani dal M5S e dal Pd. Di conseguenza, il movimento scenderebbe tra il 5 e il 7%, di fatto scomparendo, e il Pd crollerebbe sotto il 15%. Sotto questo punto di vista, un partito contiano non converrebbe davvero a nessuno: indebolirebbe i dem ma al contempo diventerebbe l’ennesima stampella di un campo di centrosinistra per cui sarebbe impossibile battere la destra fra due anni (o prima). Bel pasticcio, e la responsabilità è fondamentalmente tutta di Beppe Grillo. Oltre che del Pd, naturalmente.
Sono numeri che fanno leva sulla popolarità e perfino sul fascino che l’avvocato di Volturara Appula sembra ancora suscitare fra gli italiani. Escluso il nuovo premier Mario Draghi, il cui indice di gradimento secondo Nando Pagnoncelli è salito a 71, i numeri degli esponenti politici premiano proprio Conte, primo con 49 punti anche se in calo di un paio. Precede Giorgia Meloni, che sta guidando Fratelli d’Italia a diventare primo partito (virtuale), con un indice di 40, in salita di 3 punti, e Roberto Speranza (stabile a 38). Per giunta Pagnoncelli spiegava sul Corriere che “il progressivo avvicinamento dell’ex premier alla guida del M5S determina l’effetto contrapposto di una flessione del suo apprezzamento personale (dal profilo istituzionale assume quello di capo di una forza politica) e del contemporaneo un aumento del consenso per il M5S”. Con la rottura col garante, ovviamente, tutto cambia. E stando alle parole del sondaggista, un Conte libero dallo stillicidio quotidiano a cui lo ha costretto per quattro mesi il labirinto del movimento e la corsa a ostacoli predisposta dell’ex comico potrebbe raccogliere un consenso perfino superiore alle soglie viste prima. Per capirci: Conte ha sprecato la primavera a scrivere uno statuto per conto di chi prima glielo ha chiesto e poi lo ha bocciato senza appello con tre righe sull’ennesimo blog. È di fatto sparito dal dibattito pubblico che conta dopo la faticosa esperienza del suo secondo governo investito dalla pandemia e, ciononostante, la sua popolarità è rimasta elevata.
Le premesse, insomma, sembrerebbero esserci. È la storia che non parrebbe dalla parte di Conte: altri ex presidenti del Consiglio prima di lui si sono appassionati della politica attiva, o hanno deciso lo strappo con i propri partiti di riferimento, per precipitare nel vuoto sondaggistico e alle urne. Mario Monti e Matteo Renzi sono i due precedenti subentrati alla guida dopo cambiamenti di maggioranze parlamentari, dunque non dopo un voto politico, che sconsiglierebbero a Conte un salto del genere. Tuttavia Monti usciva da un governo visto da molti italiani come “punitivo” mentre Renzi, quando lasciò il Pd per fondare Italia Viva, aveva perso ormai da molto tempo la spinta propulsiva del suo “governo dei mille giorni”. L’ex sindaco di Firenze era in rotta col paese ormai dall’autunno di tre anni prima, quando trasformò il referendum costituzionale del 2016 in un voto sulla sua faccia. E perse promettendo di ritirarsi dalla politica salvo poi tornare pochi mesi dopo a tentare di trasformare il Pd dall’interno, facendosi rieleggere segretario. La luna di miele con gli italiani, semmai era iniziata, era finita da un pezzo.
La luna di miele con Conte, invece, è rimasta come congelata. In prima battuta sembra che molti italiani, perfino di sinistra o sedicente tale, abbiano dimenticato in tempi record il suo primo governo sovranista con Matteo Salvini ministro dell’Interno, pieno di infinite altre porcherie. Siamo un paese razzista nel dna? Forse sì. Fatto sta per esempio che i decreti sicurezza non paiono macchiare più di tanto (come invece dovrebbero) il curriculum di Conte.
In secondo luogo, i lunghi mesi di emergenza sanitaria – pure costellati di incertezze, errori, nomine discusse come quella di Domenico Arcuri e banchi con le rotelle – paiono garantirgli una sorta di salvacondotto: nel pieno del trauma collettivo, in fondo, c’era lui a parlare a tarda notte al paese e dunque, al netto di tutti gli errori, gli viene forse riconosciuta la capacità di aver imparato facendo, di non essersi fatto travolgere dal panico e di aver fatto – contro un nemico all’inizio del 2020 semisconosciuto – il massimo possibile. Soprattutto, il confronto con i vicini europei non è che premi o rammarichi più di tanto: leader d’esperienza come Angela Merkel o neofiti come Conte, alla fine, se si voltano all’ultimo anno e mezzo vedono incertezze, esitazioni, errori ma anche slanci e capacità di compattare le opinioni pubbliche. Senza contare il lavoro sul Recovery Fund: l’Italia sarà pure too big to fail e magari quei soldi sarebbero arrivati anche se li avesse chiesti Paperino ma, di nuovo, a quei tavoli almeno formalmente sedeva Conte.
Un bagaglio pesante, per una persona alle prese con la politica da poco più di tre anni. Un dramma di mezzo che gli garantisce uno sconto di severità. Un approccio popolare, un po’ narciso e molto paternalista, che ha ancora presa su un bel pezzo di paese: questi tre elementi della recente biografia del personaggio potrebbero dare alla lista ConTe una sorte almeno in parte diversa rispetto alle meteore o ai lillipuziani Scelta civica o Italia viva.
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